E come… episcopato!
«Se uno aspira all’episcopato, desidera un nobile lavoro» (1Tm 3,1). Parola di san Paolo, e rivolta a san Timoteo, che appunto era vescovo, e per la precisione della comunità cristiana di Efeso. Che, pur nobile, ma di lavoro, e cioè di fatica e impegno si tratti, è lo stesso Paolo a chiarirlo da subito: «Il vescovo infatti, come amministratore di Dio, deve essere irreprensibile: non arrogante, non collerico, non dedito al vino, non violento, non avido di guadagni disonesti, ma ospitale, amante del bene, assennato, giusto, santo, padrone di sé, fedele alla Parola, degna di fede, che gli è stata insegnata, perché sia in grado di esortare con la sua sana dottrina e di confutare i suoi oppositori» (Tt 1,7-9). Molto più che una carica onorifica o una forma di potere, e ben poco di cui vantarsi. Piuttosto una grande responsabilità davanti a Dio e ai fratelli: da un verbo greco che significa sorvegliare, vigilare, fare attenzione, in un servizio per il quale si è costituiti dallo Spirito Santo (At 20,28, l’italiano «custodi» traduce il greco «episkopoi»).
Nessuna meraviglia perciò che Francesco, alla proposta del cardinal Ugolino di nominare vescovi alcuni tra i migliori dei frati, rispose: «Signore, i miei frati proprio per questo sono stati chiamati minori, perché non presumano di diventare maggiori. Il nome stesso insegna loro a rimanere in basso e a seguire le orme dell’umiltà di Cristo, per essere alla fine innalzati più degli altri al cospetto dei santi. Se volete – continuò – che portino frutto nella Chiesa di Dio, manteneteli e conservateli nello stato della loro vocazione, e riportateli in basso anche contro la loro volontà. Per questo, padre, ti prego: affinché non siano tanto più superbi quanto più poveri e non si mostrino arroganti verso gli altri, non permettere in nessun modo che ottengano cariche» (2Cel 148: FF 732; primo frate minore vescovo sarà Leone da Perego, vescovo di Milano nel 1244). E pur essendoci in Francesco il massimo rispetto per tutti i vescovi, prima di tutto perché amministrano l’eucaristia come tutti gli altri sacerdoti (2Lcus 4: FF 247). E senza il cui permesso ai frati non è assolutamente concesso predicare in una diocesi (Rb 9,1: FF 98; CAss 58: FF 1586; LegM 6,8: FF 1113), né costruirvi una dimora per sé (Spec 10: FF 1691). E nonostante molti siano stati i vescovi che poterono vantare un’amicizia o almeno una frequentazione assidua con Francesco: da Guido, vescovo di Assisi (anzi, forse due: Guido I e Guido II), a Giovanni di S. Paolo, vescovo di Sabina, allo stesso Ugolino, vescovo di Ostia.
Interessante è infine come Francesco nomini il confratello Antonio di Padova, in un bigliettino indirizzato a lui per permettergli di insegnare la teologia ai frati: «A frate Antonio, mio vescovo…» (LAnt 1: FF 251; cf 2Cel 163: FF 748). Sicuramente centra il fatto che il concilio Lateranense IV concedeva ai vescovi impossibilitati di predicare, di nominare qualcuno al proprio posto, e Antonio si stava facendo conoscere proprio per le sue qualità oratorie. Ma Francesco, usando quell’epiteto, non avrà voluto significare qualcosa di più profondo e responsabilizzante per Antonio e per tutti i frati che studiano teologia, insegnano o predicano?
(Alfabeti improbabili. A zonzo tra Bibbia e Fonti Francescane/53)
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