Mt 25,31-40

Ogni volta che…

Ogni volta che…

Nella festa di santa Elisabetta d’Ungheria, che, come famiglia francescana, abbiamo da poco celebrato, la liturgia ci proponeva il Vangelo di Mt 25,31-40: «Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere? […] In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me».
Un Vangelo, tante volte meditato, che mi ha sempre spinta a fare un esame di coscienza sulla mia capacità di misericordia (miseri-cor-dare: dare il cuore al misero) nei confronti di chi è “affamato”, non solo di cibo materiale, è “assetato”, non solo di acqua, di chi è “straniero”, pensando non solo a chi proviene da altri paesi, ma anche a chi, semplicemente, “non la pensa come me”, di chi è “nudo”, “malato” o “carcerato”, non solo fisicamente, ma anche spiritualmente o moralmente.
Trovarsi davanti a questo Vangelo, in vari periodi dell’anno liturgico, è sicuramente un dono, proprio perché permette, a me e a ogni cristiano, di riflettere profondamente sulla propria capacità di farsi prossimo e di chiedere al Signore di rendere sempre più il proprio cuore simile al Suo.
Questa volta, però, la Bibbia Francescana, ha allargato la mia riflessione. In corrispondenza di «tutto quello che avete fatto a uno solo…» (v. 40), vi è, infatti, il rimando alle Fonti Francescane 659 (2Cel 71), in cui Francesco dice ai suoi frati che non bisogna vergognarsi di chiedere l’elemosina e aggiunge: «Andate, perché in quest’ultimo tempo i frati minori sono stati dati al mondo, affinché gli eletti compiano verso di essi azioni degne di essere premiate dal Giudice: Ciò che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli minori l’avete fatto a me». Francesco, cioè, dice ai suoi frati che, chiedendo l’elemosina, possono permettere ad altri di usare misericordia.
C’è un bel cambio di prospettiva: non solo quante volte io mi faccio prossimo dell’altro, ma anche quante volte permetto all’altro di farsi mio prossimo. Spesso, infatti, è più “semplice” amare che lasciarsi amare, accudire che lasciarsi accudire, soccorrere il debole, che essere e farsi vedere debole. Ma Francesco dice ai frati, e lo continua a dire ancora oggi a ogni cristiano, che non c’è niente di male nell’essere “debole”, anzi… diventa per l’altro possibilità di esprimere in pienezza il proprio essere umano e cristiano. Che bello!
Il Signore ci conceda si lasciarci “soccorrere” quando siamo affamati o assetati, non solo di cibo o acqua, ma anche di sostegno, di tenerezza, di amore; quando ci sentiamo stranieri perché andiamo contro-corrente rispetto alla “massa”; quando siamo malati, non solo fisicamente, ma soprattutto spiritualmente, quando siamo prigionieri delle nostre abitudini, dei nostri vizi, dei nostri “giri mentali”.

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ARTICOLO DI: Raffaella Cavalera

“Raffaella Cavalera, licenziata in Teologia spirituale, presso la Facoltà Teologica del Triveneto.”

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