Frate Francesco d’Assisi. Dalla liberazione all’incontro col lebbroso
Passato un periodo di coatta convalescenza tra le mura domestiche, premurosamente accudito dalla madre, la vita riprese il suo ritmo quotidiano ma non era più la stessa, non più quella lasciva tra brigate di goliardi. Era tempo quello di riflessioni in lunghe, solitarie esplorazioni negli incontaminati boschi, circostanti la città. Finché una notte un sogno: vide un maestoso palazzo zeppo di splendide armi e, stupito da tanta meraviglia, chiese a chi appartenesse quel tesoro e, dall’alto, una voce misteriosa gli rispose che era suo e dei suoi condottieri. L’alba lo ritrovò rinvigorito nelle membra, si riaccese in lui il fervore cavalleresco e con esso la brama di nobiltà. Si arruolò al nobile Gentile di Seguino, assisano che cercava, in quei luoghi, guerrieri per condurli in Puglia al seguito del Capitano Gualtiero di Brienne, nobile di poca fortuna, che aveva sposato in Francia, dove si era rifugiata, una figlia del re Tancredi di Sicilia, erede del Principato di Lecce, sceso in Italia per riscattarlo con le armi. Arrivò il giorno della partenza e Francesco, insieme con un manipolo di giovani a caccia di gloria, in groppa al suo destriero, armato di tutto punto da far invidia al più nobile dei cavalieri, compiaciuto ed ammirato dalla folla festante, partì. Ma, giunto a Spoleto, cadde in preda ad una profonda crisi e, febbricitante, nel sonno ebbe un’ulteriore visione rivelatrice, che con voce suadente gli intimò di ritornare nella sua Terra ed attendere la chiamata del Signore. Ai primi albori del giorno abbandonò l’armata di ventura, fece dono della sua splendida armatura e ritornò ad Assisi, accolto dal burlesco sarcasmo dei suoi concittadini. Umiliato, sfumavano sempre più in lui sia l’agognato sogno di nobiltà che la sofisticata vanità della gloria terrena. Lasciò definitivamente le allegre brigate, per dedicarsi ad una vita di intensa meditazione. Depresso, andò pellegrino a San Pietro in Roma, sperando di trovare un barlume di luce in quel buio fondo della sua anima, imbrigliata in un groviglio, alla ricerca del bandolo, occultato dal limite della conoscenza, incapace di dare un senso compiuto all’esistenza e di svelare dal profondo della coscienza l’Entità Assoluta di quel Dio che s’avverte ma non si coglie e che quanto più lo senti vicino tanto più appare inafferrabile e incomprensibile. Più tormentato di prima, da Roma rientrò ad Assisi e in uno di quei giorni di greve inquietudine, durante una sua consueta cavalcata nei campi del contado, s’imbatté in un lebbroso, che chiedeva l’elemosina. A quella vista, d’istinto, cercò di cambiare direzione, per il ribrezzo che sempre provava alla vista di quei corpi devastati. Ma, al cospetto di quell’uomo raccolto nella sua sofferenza, schivato e schifato, ebbe compassione, scese da cavallo, gli donò la borsa coi denari e gli baciò la mano e la bocca. «Il Signore così donò a me, frate Francesco, la grazia di cominciare a fare penitenza: quando ero ancora nei peccati, mi pareva troppo amaro vedere i lebbrosi, e il Signore stesso mi condusse tra loro e con essi usai misericordia; quando me ne allontanai, quello che prima mi pareva amaro, subito si mutò in dolcezza d’animo e di corpo». Quella “dolcezza” avvertita nel bacio al lebbroso, dopo averne vinto la ripugnanza, fu l’atto primo dell’incontro con Cristo sempre vivo, che s’identifica e si configura nella sofferenza di ogni sofferenza. Quell’evento così apparentemente casuale, rafforzò in Francesco l’amore che avvertiva dentro e lo sollecitava ad opere di carità verso gli ultimi, i deboli e gli ammalati, per portare un po’ di luce e di speranza “dove il buio del dolore sembra lasciare l’uomo senza scampo”.
(da “Nacque al mondo un Sole” di Nicola Savino/2)
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