silenzi imbarazzanti
“In quel tempo, Gesù e i suoi discepoli attraversavano la Galilea, ma egli non voleva che alcuno lo sapesse. Insegnava infatti ai suoi discepoli e diceva loro: «Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà». Essi però non capivano queste parole e avevano timore di interrogarlo.
Giunsero a Cafàrnao. Quando fu in casa, chiese loro: «Di che cosa stavate discutendo per la strada?». Ed essi tacevano. Per la strada infatti avevano discusso tra loro chi fosse più grande. Sedutosi, chiamò i Dodici e disse loro: «Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti».
E, preso un bambino, lo pose in mezzo a loro e, abbracciandolo, disse loro: «Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato»” (Mc 9,30-37).
Domenica XXV del Tempo Ordinario – anno B – Gesù riconosciuto come Messia sale a Gerusalemme. I discepoli cominciano ad immaginare un maestoso ingresso del re inviato da Dio nella sua capitale: il trionfo di Cristo sarà anche il loro trionfo! Gesù spiega loro per la seconda volta che cammina verso la sua morte. Essi non comprendono. Si preparano allora discutendo di precedenze…: chi è il più grande?
Il breve passo sembra composto da due frammenti: 1. il secondo annunzio della Passione (9,30-32); 2. un insegnamento di Gesù sulla vera grandezza, a proposito di una disputa sorta tra i discepoli (9,33-35). In realtà, come si è già capitato in 8,31, abbiamo la solita struttura, che ritorna tre volte: a. annunzio della Passione (9,30-31); b. incomprensione dei discepoli (9,32); c. insegnamento di Gesù sul modo di seguirlo (9,33-35). A differenza di Giovanni, il quale suppone parecchi viaggi di Gesù tra la Galilea e la Giudea, gli evangelisti sinottici ricordano una sola andata a Gerusalemme, quella che conduce Gesù verso il suo sacrificio. Appunto nel corso di questa salita annunzia per tre volte la sorte tragica che gli è riservata. La rapida traversata della Galilea, durante la quale Gesù evita di farsi riconoscere, corrisponde alla prima fase del viaggio verso Gerusalemme.
Marco, sotto l’influsso della più costante predicazione pasquale (Atti 2,23-24; ecc.), all’annunzio drammatico della morte aggiunge quello della risurrezione. Ma Gesù è consegnato dagli uomini o da Dio? In Marco, di solito, è Giuda che consegna Gesù ai suoi nemici: 3,19; 14,10.11.18.21.42.44. Sono anche i sommi sacerdoti che lo consegnano a Pilato: 15,1; oppure Pilato che consegna Gesù ai carnefici: 15,15. Ma il verbo al passivo può anche essere un modo, ben noto negli ambienti ebrei dell’epoca, di ricordare Dio senza nominarlo, per rispetto. Gesù ha visto attuarsi nella sua Passione il disegno del Padre, che l’abbandona nelle mani degli uomini: «Egli non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi» (Lettera ai Romani 8,32).
Regolarmente, a ciascuno dei tre annunzi di passione-morte-risurrezione, Marco nota che Gesù non è compreso dai suoi discepoli. Anzi, un clima di crescente paura incombe sul gruppo; lo si ritroverà anche più avanti: 10,32. Qui i discepoli hanno paura di tornare su questo annunzio di morte e di accettarlo. Marco sottolinea meno la psicologia dei discepoli, quanto invece il carattere inverosimile dell’abbassamento del Figlio dell’uomo!
Nell’intimità di una casa Gesù cerca di fare luce nelle tenebre timorose sei suoi. «Di che cosa stavate discutendo per la strada?». «Ed essi tacevano». Un silenzio imbarazzante e carico di vergogna, causato da uno stupore: il Maestro sa! Allora non è vero che non avevano capito il messaggio del Maestro: semplicemente non volevano crederci sul serio. La speranza è sempre quella che la relazione con il Maestro offra vantaggi, non che dia problemi. Questa revisione che Gesù propone ai suoi discepoli manifesta una tragica distanza tra la gravità dei pensieri di Gesù sulla sua sorte e le vere preoccupazioni dei suoi amici. Diventa per lui l’occasione di introdurre, come dopo gli altri annunzi (8,34-38; 10,41-45), un insegnamento sull’atteggiamento che si aspetta dai suoi discepoli. Quest’insegnamento si prolungherà fino a 9,50.
E l’insegnamento è “spiazzante”: «Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti». Gesù non si rivolge qui né alle folle né ai discepoli, ma espressamente ai Dodici. È un fatto raro in Marco. Si tratta in genere (3,13-14; 6,7) di momenti in cui è in causa la Chiesa: la scelta di quelli che ne saranno le colonne, l’invio in missione e, qui, le condizioni di vita nella comunità. Gesù prenderà di nuovo i Dodici in disparte dagli altri discepoli per annunziare che la sua passione è vicina e, dopo un intervento di Giacomo e di Giovanni, che essi pure un giorno saranno associati alla sua sofferenza (10,32). I Dodici saranno ancora nominati in 11,11; 14,17.
La legge delle relazioni con il prossimo è espressa con tutto il vigore del paradosso che essa implica. Non si spiega perfettamente se non con l’esempio di Gesù: «Non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio ma spogliò se stesso assumendo la condizione di servo» (Filippesi 2,6-7). Dato che amò i suoi sino alla fine, Gesù prima di morire lavò i piedi dei suoi discepoli. «Vi ho dato l’esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi» (Giovanni 13,15). A illustrazione dell’«ultimo» (9,35) ecco il bambino. Per la sua piccolezza, la sua situazione di dipendenza, il bambino è il tipo stesso del povero. In quell’epoca era una parte delle ricchezze degli adulti, ma non era riconosciuto come un essere che interessasse per sé stesso. Gesù non solo non lo respinge, ma richiedendo che si riconosca lui stesso, Gesù, in un bambino, si identifica con esso. Lo mette al centro, al posto di maggior dignità.
Il tema della grandezza di colui che seve è molto affine al carisma francescano. Ne troviamo traccia – per esempio – in una particolare narrazione di san Bonaventura:
«Disse una volta Francesco al suo compagno: «Non mi sembra di essere frate minore, se non sarò nello stato che ora sto per descriverti. Ecco: io sono superiore dei frati e vado al capitolo, predico e ammonisco i frati, e alla fine quelli si mettono a dire contro di me: ‘‘Non sei adatto per noi: non sei istruito, non sai parlare, sei idiota e semplice!’’. Alla fine vengo scacciato ignominiosamente, tra le ingiurie di tutti. Ti dico: se non ascolterò tutto questo con la stessa faccia, con la stessa allegrezza di spirito e con lo stesso proposito di santità , non sono per niente un frate minore». […] Proprio per questo motivo Francesco, modello di umiltà, volle che i suoi frati si chiamassero «minori» e che i prelati del suo Ordine avessero il nome di «ministri». In questo modo egli si serviva delle parole contenute nel Vangelo, che aveva promesso di osservare, mentre i suoi discepoli, dal loro stesso nome, apprendevano che erano venuti alla scuola di Cristo umile, per imparare l’umiltà. Difatti Cristo Gesù, il maestro dell’umiltà, allo scopo di formare i discepoli all’umiltà perfetta, disse: Chiunque tra voi vorrà essere il maggiore, sia vostro ministro, e chiunque tra voi vorrà essere il primo, sarà vostro servo» (San Bonaventura, Leggenda Maggiore, cap. 6 : FF 1108-1109).
E Tommaso da Celano aggiunge un dettaglio molto caratteristico del modo di ragionare di san Francesco:
«Un frate vede Francesco che ritorna dalla preghiera. Gli si prostra subito dinanzi, con le braccia in forma di croce, e si rivolge a lui non come a uno che viva sulla terra, ma quasi a un essere che regni già in cielo: «Prega per me il Figlio di Dio, padre, che non tenga conto dei miei peccati». L’uomo di Dio gli tende la mano e lo rialza, sicuro che nella preghiera ha ricevuto una visione. Alla fine, mentre si allontanano dal luogo, il frate chiede a Francesco: «Padre, che cosa ne pensi di te stesso?». Ed egli rispose: «Mi sembra di essere il più grande peccatore, perché se Dio avesse usata tanta misericordia con qualche scellerato, sarebbe dieci volte migliore di me» (Tommaso da Celano, Vita seconda di s.Francesco, 123 : FF 707).
Un piccolo “fioretto” narrato da Tommaso da Eccleston circa gli eventi in Inghilterra nella prima diffusione dell’Ordine minoritico ricorda come la centralità dei bambini suggerita da Cristo divenga occasione di “prodigi” spirituali:
«Frate Guglielmo mi disse [= a Tommaso da Eccleston] anche che quando era ancora nella casa paterna, vennero dei bambini poveri a chiedere l’elemosina; egli diede loro il suo pane ed essi gli donarono un pezzo del loro, e gli era sembrato che quel pane duro, mendicato per l’amore di Dio, fosse più gustoso del pane tenero che lui e i suoi familiari mangiavano. E così i bambini, per rendere il loro pane più gustoso, si domandavano l’uno all’altro del pane per amore di Dio» (Tommaso da Eccleston, L’avvento dei frati minori in Inghilterra, FF 2574).
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