E come… Egitto!
Anche oggi, se non fosse per qualche attentato terroristico, l’Egitto sarebbe una meta turistica ambita: Sharm el-Sheikh sul mar Rosso, le piramidi nel deserto, il museo egizio del Cairo, la crociera lungo il Nilo, solo per citare alcune delle sue bellezze. Ma l’Egitto fu crocevia anche per la storia di Israele. Ci andò ramingo e affamato Abramo (Gen 12,10). Giuseppe vi fu condotto schiavo (Gen 37,25-28), vi divenne potente e ricco, fino a poter sfamare la sua numerosa famiglia all’ennesima carestia (Gen 39-48). Vi nacque Mosè, prima adottato dalla figlia del Faraone ma poi bandito perché omicida (Es 2,1-22). Ma soprattutto è nella liberazione dalla dura schiavitù d’Egitto da parte di Dio, raccontata in lungo e largo nei libri del Pentateuco, che Israele identifica in qualche modo il suo vero atto di nascita come popolo dell’alleanza, ma soprattutto come popolo amato da Dio. Nel Seder di Pesach, la celebrazione annuale della pasqua ebraica, proprio di quei lontani avvenimenti anche oggi gli ebrei fanno memoria (haggada) e, allo stesso tempo, attualizzazione: «Perché mai è diversa questa sera da tutte le altre sere?», domanda il più piccolo dei partecipanti alla cena. «Schiavi fummo del Faraone in Egitto; ma di là ci fece uscire il Signore, nostro Dio, con mano forte e braccio disteso», rispondono in coro tutti gli altri! L’Egitto, e il successivo cammino del deserto, diverrà per sempre memoria e nostalgia del tempo della liberazione e dell’innamoramento tra il popolo e Dio: «Il Signore che ci fece uscire dall’Egitto», scrive ancora il profeta Geremia, mille anni dopo (Ger 2,6). Poi l’Egitto ritornerà ancora nel Primo Testamento ma come tentazione di alleanze tanto umane e poco confidenti nella potenza di Dio (cf. Is 30,1-7). In Egitto ci andò, profuga e perseguitata, grazie alla soffiata di un essere angelico, anche la Sacra Famiglia di Nazareth al completo, con Gesù bambino (Mt 2,13-23).
Con queste premesse, non ci stupiamo che “Egitto” divenne anche per la spiritualità cristiana un simbolo, una metafora che ha nutrito il cammino di asceti (che numerosi andarono ad abitare il deserto egiziano, come sant’Antonio abate) e cristiani fervorosi. E non ci stupiamo, perciò, che anche san Francesco ebbe modo di recarsi fin là. Le biografie antiche lo fanno arrivare solo fino al delta del Nilo, a Damietta, dove, nel contesto della quinta crociata, milizie cristiane e musulmane si stavano fronteggiando armate fino ai denti. Da queste stesse fonti, in maniera sorprendente non solo francescane, abbiamo un resoconto quasi dettagliato di cosa fece Francesco lì in quei giorni, assieme al confratello Illuminato d’Arce, probabilmente tra giugno e ottobre 1219 (2Cel 30: FF 617; LegM 9,7-9: FF 1172-1175; Fior 24: FF 1855-1856; 2Vitry 2: FF 2212; Ernoul: FF 2231-2234; Ricordi di frate Illuminato: FF 2690-2691). I due sono impressionati già dall’immoralità che regna nel campo crociato dove sono appena giunti. Non aspettano neanche un attimo prima di cominciare la loro missione evangelizzatrice proprio tra le fila dei cristiani. I due frati decidono infine di recarsi con fiducia, e nella meraviglia più totale dei cristiani, dal gaglioffo che comandava le truppe nemiche, il sultano Malik al-Kamil. Per farla breve, attraversato il territorio di nessuno che di solito divide due eserciti nemici, i frati vengono presi in consegna dalle guardie nemiche, che non sono davvero molto gentili con loro, ma comunque li accompagnano dal sultano. Il colloquio tra i due è sorprendentemente persino cordiale, condito di ordalie e prove del fuoco più o meno inventate al proposito. Dopo i saluti e gli abbracci di congedo, Francesco e Illuminato se ne tornano, con i propri piedi, nel campo crociato.
(Alfabeti improbabili. A zonzo tra Bibbia e Fonti Francescane/68)
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