La cella delle clarisse
La cella: una invenzione degli anacoreti dell’Egitto, passata poi al mondo monastico d’oriente e d’occidente.
La storia della cella è complessa e ha incontrato lungo i secoli la concorrenza del dormitorio comune, uscendone sempre vittoriosa fino alla definitiva affermazione dopo il Concilio Vaticano II.
Si direbbe che non ha nulla a che fare con Francesco d’Assisi, il penitente pellegrino “itinerante”, e con la sua discepola Chiara. Invece, troviamo nelle Fonti Francescane, che Francesco ha coltivato molto la “spiritualità della cella” nella sua ricerca di Dio. I biografi ci narrano che Francesco, quasi rifacendosi al monachesimo precedente di S. Benedetto, si ritirava volentieri in “cellette” preparate per lui, purché fossero povere, disadorne, prive di conforto, e inoltre non voleva fossero dette sue. Là vi si ritirava nel silenzio e nella solitudine e vi perseverava fino a quando non insorgesse una impellente necessità per uscire. Da vero imitatore del suo Signore ne metteva in pratica il precetto: «Quando preghi, entra nella tua camera, chiudi la porta e prega il Padre tuo, che è nel segreto e ti ricompenserà» (Mt 6,6). Lo metteva in pratica non solo ritirandosi nella cella, ma anche quando cercava la solitudine e il silenzio nelle selve e là, alla presenza di Dio, apprendeva il segreto della pace interiore e della contemplazione. Oppure quando, trovandosi in viaggio, o stipato tra la folla, «se all’improvviso si sentiva visitato dal Signore, per non rimanere senza cella, se ne faceva una con il mantello, o si ricopriva il volto con la manica e faceva del suo cuore un tempio» (2Cel 94: FF 681).
Con i suoi esempi di vita, Francesco sembra dirci che la cella non è altro che la metafora di “ogni luogo” che sia spazio e tempo libero per la connessione fondamentale, che sola è capace di restituirci a noi stessi: quella con il Padre che è nel segreto del nostro cuore.
Chi vive in monastero, avendo dei tempi stabiliti per ritirarsi nella cella, ne conosce i frutti, la dolcezza che ne ricava perseverando in essa nel silenzio, nella preghiera, nel lavoro, nel riposo e anche la fatica e la lotta che occorre sostenere per restarvi nella quiete e sotto lo sguardo di Dio.
Tuttavia il chiudersi in un luogo separato non è sempre scelta indispensabile: ciò che conta è l’intenzione pura di mettersi sotto lo sguardo di Dio e prendere contatto con noi stessi per accoglierci e rappacificarci con le nostre ferite, sentimenti, delusioni, debolezze. Ripristinata così la relazione con Colui che è la nostra origine e ci ama, scopriremo quella “ricompensa promessa” dal Vangelo, che è sperimentare una capacità nuova di vedere e affrontare le stesse realtà di prima. Sperimenteremo, per conoscenza d’amore, il realizzarsi delle parole di Gesù: «Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi e io vi darò ristoro» (Mt 11,28).
La preghiera è una «scuola di leggerezza» (fr. Michael Davide, monaco benedettino), è un ritorno al cuore, come luogo di incontro con Dio, con noi stessi, con i fratelli e le sorelle, con il cosmo.
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