L come… lavorare!
Il lavoro è una delle dimensioni della nostra vita, al pari di amore, intelligenza e poche altre, che sembra far parte geneticamente di quello che uomini e donne sono da sempre. Un ragazzo diventa adulto nel momento in cui inizia a lavorare, e smette di giocare. In ciò probabilmente rammentando che probabilmente l’uomo è stato pienamente tale solo nell’istante in cui il Creatore gli ha affidato il compito di “coltivare e custodire” il creato. Secondo il racconto biblico egli appare sulla terra proprio perché c’era bisogno di qualcuno che la “lavorasse” (Gen 2,15). Il lavoro, perciò, non è una maledizione, anche se dopo il peccato originale se ne accentueranno gli aspetti legati al dolore e alla fatica (Gen 3,17-19). Anche se, significativamente, l’ordine rimane lo stesso dell’inizio: «Il Signore Dio lo scacciò dal giardino di Eden, perché lavorasse il suolo da cui era stato tratto» (Gen 3,23). La Bibbia, dal Primo al Secondo Testamento, testimonia un po’ di tutti i lavori del tempo, e ognuno ha divinamente diritto alla propria paga (cf. Tb 4,14; Qo 3,13; Lc 10,7; Gc 5,4). Perciò il salmista può dire sinteticamente che all’alba, quando la vita di tutta la creazione riprende, «l’uomo esce per il suo lavoro» (Sal 104,23). Paolo se ne fa un motivo di vanto: «Sapete in che modo dovete prenderci a modello: noi infatti non siamo rimasti oziosi in mezzo a voi, né abbiamo mangiato gratuitamente il pane di alcuno, ma abbiamo lavorato duramente, notte e giorno, per non essere di peso ad alcuno di voi» (2Ts 3,7-9). Fino al famoso detto: «chi non vuole lavorare, neppure mangi» (2Ts 3,10), che ricorda quello cantato da Celentano: «Chi non lavora, non fa l’amore»…
Non si può allora che ribadire come sia Francesco che Chiara, i cui ordini verranno frettolosamente detti “mendicanti”, in realtà richiamino prima di tutto al lavoro, soprattutto manuale: «E i frati che sanno lavorare, lavorino ed esercitino quella stessa arte lavorativa che già conoscono» (Rnb 7,3: FF 24). Eventualmente scegliendo i lavori più adatti alla scelta francescana di minorità: «Tutti i frati, in qualunque luogo si trovino presso altri per servire o per lavorare, non facciano né gli amministratori, né i cancellieri, né presiedano nelle case in cui prestano servizio; né accettino alcun ufficio che generi scandalo o che porti danno alla loro anima; ma siano minori e sottomessi a tutti coloro che sono in quella stessa casa» (Rnb 7,1-2: FF 24). A cui fa eco santa Chiara: «dopo l’ora di terza lavorino con fedeltà e devozione e di un lavoro che sia onesto e di comune utilità» (RsC 7,1: FF 2792). Il lavoro è così importante che prevede una delle poche eccezioni al divieto di “possesso” per i frati: «E sia loro lecito avere gli arnesi e gli strumenti necessari ai loro mestieri» (Rnb 7,9: FF 25). Così frate Egidio a Roma si mantiene con il lavoro delle proprie mani, sia raccogliendo noci che andando nel bosco a far legna per chiunque (Chronica XXIV Generalium, pp. 81-82).
La questua è prevista solo nel bisogno: «E quando sarà necessario, vadano per l’elemosina come gli altri frati» (Rnb 7,8: FF 24; alcuni manoscritti hanno invece di “frati” la parola “poveri”). Forse anche come richiamo alla parola del vangelo: «Guardate gli uccelli del cielo: non seminano e non mietono, né raccolgono nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non valete forse più di loro?» (Mt 6,26)?
(Alfabeti improbabili. A zonzo tra Bibbia e Fonti Francescane/56)
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