frate “armadio” Antonio
Frate armadio. No, non si tratta del nuovo fantasioso nome di un mobile di catalogo di una nota catena di arredamento svedese…
Questa volta “armario” è la particolare definizione che un papa (sic!) ha dato ad un frate, francescano, della prima generazione dei Frati minori. Non un frate qualsiasi, ma frate Antonio di Padova da Lisbona. Sant’Antonio insomma, o “il Santo” come comunemente è conosciuto da otto secoli. Lunedì 13 giugno torna la sua festa.
Per la precisione papa Gregorio IX dice di frate Antonio: «Veramente costui è arca del Testamento e armario della Iscrittura divina». Che cosa era successo?
Nella pagina degli Atti degli Apostoli che narra la Pentecoste (2,8) si racconta dello stupore dei presenti davanti al prodigio di uomini che parlando erano compresi chiaramente da genti di lingue diverse:
«…la folla si radunò e rimase turbata, perché ciascuno li udiva parlare nella propria lingua. Erano stupiti e, fuori di sé per la meraviglia, dicevano: “Tutti costoro che parlano non sono forse Galilei? E come mai ciascuno di noi sente parlare nella propria lingua nativa? Siamo Parti, Medi…».
Bibbia Francescana a questo punto mette un piccolo rimando, a Fonti Francescane 1874, dove troviamo il capitolo XXXIX dei celebri “Fioretti”:
«Il maraviglioso vasello dello Spirito Santo messer santo Antonio da Padova, uno degli eletti discipoli e compagni di santo Francesco, il quale santo Francesco chiamava suo vescovo, una volta predicando in consistorio dinanzi al papa e a’ cardinali, nel quale consistorio erano uomini di diverse nazioni, cioè greca, latina, francesca, tedesca, ischiavi e inghilesi e d’altre diverse lingue del mondo, infiammato dallo Spirito Santo, si’ efficacemente, si’ divotamente, si’ sottilemente, si’ dolcemente, si’ chiaramente e si’ intendevolemente propuose la parola di Dio, che tutti quelli che erano in consistorio, quantunque fossino di diversi linguaggi, chiaramente intendeano tutte le sue parole distintamente, siccome egli avesse parlato in linguaggio di ciascuno di loro; e tutti stavano istupefatti, e parea che fusse rinnovato quello antico miracolo degli apostoli al tempo della Pentecoste, li quali parlavano per la virtù dello Spirito Santo in ogni lingua.
E diceano insieme l’uno coll’altro con ammirazione: «Non è di Spagna costui che predica? e come udiamo tutti noi in suo parlare il nostro linguaggio delle nostre terre?». Il papa simigliantemente, considerando e maravigliandosi della profondità delle sue parole, disse: «Veramente costui è arca del Testamento e armario della Iscrittura divina».
A laude di Gesù Cristo e del poverello Francesco. Amen».
Per quanto la lingua dei Fioretti possa sembrare arcaica, il significato è davvero evidente. L’autore sconosciuto – erede di una lunga tradizione precedente – narra questo episodio accaduto a frate Antonio di Padova da Lisbona in Roma, dove ebbe modo di offrire la sua meditazione al papa e cardinali riuniti in concistorio. E in tale occasione le origini ispanico-lusitane di Antonio non sono di ostacolo per farsi comprendere in modo così mirabile dall’uditorio, che pare riproporsi il prodigio della Pentecoste.
Ma è proprio la chiusa della vicenda che ci affascina: il papa stesso – ammirato di tanta sapienza scritturistica – definisce Antonio “Arca del Testamento” e “Armadio della Sacra Scrittura”.
“Arca”, “Armadio”: due contenitori. Uno prezioso (richiama l’Arca della narrazione veterotestamentaria, contenente soprattutto le “10 parole” di Dio scritte sulle due tavole di Mosè), l’altro capiente e grande (un armadio, rievocando anche forse il particolare armadio chiamato Aron-Ha-Kodesh delle sinagoghe ebree, dove sono contenuti i rotoli della Scrittura).
Antonio incarna la Parola di Dio, ne è vivo contenitore ambulante, e generosamente la diffonde con la sua predicazione. Lo riconobbe anche un altro papa molti secoli dopo, Giovanni Paolo II (oggi nel novero dei Santi pure lui!):
«“Exsulta, Lusitania felix; o felix Padua, gaude”, ripeterò col mio predecessore Pio XII (cf. AAS 38 [1946] 200): esulta, nobile terra del Portogallo, che nella schiera numerosa dei tuoi grandi missionari francescani hai come capofila questo tuo figlio. E rallegrati tu, Padova: alle glorie della tua origine romana, anzi preromana, ai fasti della tua storia a fianco della vicina ed amica Venezia, tu aggiungi il titolo nobilissimo di custodire, col suo sepolcro glorioso, la memoria viva e palpitante di sant’Antonio. Da te, infatti, il suo nome si è diffuso e risuona tuttora nel mondo per quella nota peculiare, già da me ricordata: la genuinità del suo profilo evangelico. Un vasto ambito, in cui si espresse al meglio tale evangelicità di sant’Antonio, fu senza dubbio quello della sacra predicazione. Qui appunto, nell’annuncio sapiente e coraggioso della Parola di Dio troviamo uno dei tratti salienti della sua personalità: fu l’attività indefessa di predicatore, accanto ai suoi scritti, che egli ha meritato l’appellativo di “Doctor Evangelicus” (cf. Ivi. 201). “Passava – annota il biografo – per città e castelli, villaggi e campagne, dovunque spargendo i semi della vita con generosa abbondanza e con fervente passione. In questo suo peregrinare, rifiutandosi ogni riposo per lo zelo delle anime . . .” (Vita prima o Assidua, 9, 3-4). Non era la sua predicazione declamatoria, o limitata a vaghe esortazioni a condurre una vita buona; egli intendeva annunciare veramente il Vangelo, ben sapendo che le parole di Cristo non erano come le altre parole, ma possedevano una forza che penetrava gli ascoltatori. Per lunghi anni si era dedicato allo studio delle Scritture, e proprio questa preparazione gli consentiva di annunciare al popolo il messaggio di salvezza con eccezionale vigore. I suoi discorsi pieni di fuoco piacevano alla gente, che sentiva un intimo bisogno di ascoltarlo e non riusciva, poi, a sottrarsi alla forza spirituale delle sue parole. Si può dire, pertanto, che allo stile evangelico, proprio del discepolo pellegrinante di città in città per annunciare la conversione e la penitenza, corrispondeva il contenuto evangelico: formato allo studio della Scrittura che al Pontefice Gregorio IX aveva suggerito per lui l’epiteto di “arca del Testamento”, era soprattutto la pura dottrina di Gesù Cristo che egli riproponeva nel predicare agli uomini del suo tempo.
Credo che questa dimensione di “custodia della Parola di Dio” sia uno dei segni segreti della santità di Antonio, universalmente conosciuta, forse troppo spesso legata alla sua innegabile “specialità” di intercessore di grazie presso Dio. Una custodia che nell’animo francescano di Antonio si alterna con la gioia di donare la Parola custodita: per Antonio questo avvenne nella predicazione, nell’insegnamento ai frati (col permesso di frate Francesco d’Assisi!), nei gesti di carità evangelica che seppe concretizzare perché nutriti da quella Parola vissuta.
Del resto è lo stesso Antonio a insegnarcelo: «Lo stolto, come l’asino, sente solo il suono della parola di Dio ; invece il saggio ne percepisce la forza e la conserva nel cuore» (Sermone per la Purificazione della B.V. Maria, II.5).
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