Dall’eremo delle Carceri alla reclusione nella casa paterna
In quella condizione di volontaria reclusione, vissuta nel buio del cunicolo, Francesco meditò a lungo sulla precarietà della materia, sul mistero della nascita, su quello della morte, sull’eterno, al cospetto del quale ogni possesso terreno, ogni gloria mondana si dissolvono nella nullità.
Cos’è la borghesia, la cavalleria, la nobiltà, se non miseria, pochezza dell’uomo, che non sa guardare alla vita oltre la vita, alla luce oltre le tenebre, al tempo infinito, a Dio, che tutto contiene, non configurabile, perciò ritenuto all’uomo somigliante, non esprimibile e perciò riferibile solo attraverso il dogma della fede, postulata sulle verità infallibili e indiscutibili della Vecchia e Nuova Alleanza.
Confortato da quei soliloqui, che lo avvicinavano alla percezione di Dio, rafforzato nel carattere, Francesco pensò di affrontare da uomo la collera del padre e, dopo oltre un mese di latitanza, decise di ritornare a casa.
Là, tra le mura della sua città, quello che fu il princeps juventutis, da tutti invidiato, era ora solo un povero straccione, pari al più malandato dei mendicanti, smagrito dai forzati digiuni, sporco, coi capelli arruffati sopra due occhi languidi, tra una barba incolta, insomma un brutto folletto ridicolo da guardare.
La sua figura spettrale e ad un tempo burlesca nelle strade di Assisi fu da alcuni scambiata per un mendicante lercioso ed affamato, da altri per un lebbroso del ghetto di San Salvatore.
Vi fu, però, chi riconobbe, in quella sagoma, che si trascinava stanca e smorta, il figlio di Pietro, Francesco, l’eremita uscito di senno. Subito iniziarono a deriderlo, a sbeffarlo, ad insultarlo; più s’addentrava nel Paese, più si formava al suo seguito un corteo chiassoso; era ormai lo zimbello di tutti e tutti si prendevano gioco di lui, ciurme di fanciulli gli saltellavano intorno, i più monelli gli lanciavano contro pietre e fango e, tra fischi, stornellate al ritmo dei battimano, gridavano il suo nome, che correva di bocca in bocca, di porta in porta, fino a raggiungere quella della bottega di Pietro Bernardone.
Pietro, appena si rese conto che quelle risate sguaiate e quel fracasso erano a scherno di Francesco, uscì di scatto dalla bottega, accecato dalla rabbia per quel figlio, che bruciava, giorno dopo giorno, sui carboni del disonore, tutte le sue aspettative di padre: che pure aveva tanto dato e che fino a qualche mese addietro era orgoglioso nel vedere quel figlio così risoluto e fiero mercante, ambizioso e capace di ascendere ai ranghi nobiliari.
Ed ora era là, in pasto alla folla, sbeffeggiato, deriso e scimmiottato come l’ultimo dei folli, ad infangare nella vergogna il prestigio dei Bernardone.
Era questo un oltraggio per Pietro insopportabile, che bisognava assolutamente lavare con l’acqua della vendetta e della forza; bisognava dare una tangibile lezione a quel figlio impazzito e persino ladro, bisognava segregarlo e consumare così, nel chiuso delle mura domestiche, quel dramma, sperando che il tempo potesse alleviare le turbe della sua mente malata e restituirgli la ragione.
Col sangue agli occhi, salì di corsa il ripido vicolo e non appena arrivato in piazza, vedendo Francesco in quell’orgia carnevalesca, in preda ad un raptus lo trascinò di forza a casa, lo percosse e lo rinchiuse incatenato nella stalla.
(da “Nacque al mondo un Sole” di Nicola Savino/4)
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