Cupidigie angosciose (Lc 12, 13-21)
Fa tenerezza, quasi. Un uomo, come tanti, che si presume maturo, di fronte alla fortuna di un buon raccolto muore all’improvviso, dopo aver grandemente fantasticato su come allargare i granai e darsi alla pace dell’anima e forse dei sensi. E’ il sogno eternamente rivisitato e variegato dell’autosufficienza. Un sogno intrauterino che rappresenta in modo plateale quanto sia ingenua e pretenziosa la cupidigia. Perché ci ricaschiamo, come individui e come società?
Perché la cupidigia è un «rifugio mentale». Una patetica maschera, una zattera scricchiolante nel mare ondoso dell’angoscia di fronte al pensiero rimosso del dover prima o poi finire, morire. E allora via ad accumulare. Non importa cosa: grano, soldi, sesso, droga, scommesse, conoscenza, lavoro, shopping, cibo, running, potere, affetto, religione… Inutile andar per il sottile e differenziare. Purché dia la pur pallida illusione di controllare la morte. Più accumuli e più il senso sottile dell’inutilità di questo gioco si fa strada. Un perfido gioco infinito e vizioso, devastante. Asfissiante.
La morte delude, grazie a Dio. Letteralmente: ci strappa, ci toglie e libera da questo gioco… mortale perché ci impedisce di vivere, di arricchirci davvero. Davanti a Dio, né più né meno. Francesco lo scrive a chiare lettere nelle sue ammonizioni: «quanto l’uomo vale davanti a Dio, tanto vale e non di più» (Amm. XIX, FF 169). Né di meno.
Sorella morte, la «secunda», quella che non fa male ci libera dalla «prima», la morte paranoica dell’«autismo spirituale» che ci sequestra da tutte le relazioni, a partire da quella col Risorto. Non c’è barba di granaio ristrutturato che ci sollevi dall’affrontare sinceramente – ovvero: con una mente «sine cera», senza cere e mascara di sorta – il nostro limite e insieme il nostro valore.
Questo sì, infinito.
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