Gv 15,1-8

tralcio o intralcio?

tralcio o intralcio?

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato.
Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano.
Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli». (Gv 15,1-8)

Domenica 5′ del tempo di Pasqua – anno B – Nel discorso d’addio dell’Ultima Cena Giovanni ha collocato molti temi tipici della sua teologia e della sua mistica. Nel brano proposto dalla liturgia l’evangelista illumina il rapporto di intimità che intercorre tra la Chiesa e il Cristo. Già l’antico testamento aveva usato questo simbolismo della vigna per illustrare il nesso che intercorreva tra Israele e il suo Dio, un nesso di cure e premure da parte del Signore e di indifferenza e rifiuto da parte di Israele (emblematico al riguardo è lo splendido canto del profeta Isaia riguardante la vigna: Is 5,17; 27,2.6; ma anche: Ger 2,21; Ez 15,1-8; 17,2-10; Os 10,1; Sal 80,9-20; Mc 12,1-9; Mt 20,1-16; 21,28-32; Lc 13,6-9). Il tralcio unito al ceppo, l’adesione vitale del credente al Cristo sono essenziali per la fecondità dei frutti: non per nulla il quarto vangelo ripete nella sezione ben cinque volte l’espressione «in me». Il «rimanere» in Cristo è fondamentale al germoglio della fede che è in noi perché possa avere un senso e possa sopravvivere.

Un’amica di Bibbia Francescana ci scrive: «Tutto quello che non ha in Lui il suo nutrimento, non vivrà per sempre. Dio non alimenterà gli in-tralci, ma con cuore materno e paterno avrà sempre cura della vigna intera». Un linguaggio schietto e brillante, che focalizza il ruolo dei tralci nella vigna: che nello starci sanno che saranno tagliati e potati per portare frutto, quindi “governati” da chi sapientemente sa dove potare… ma – badiamo bene! -non meno dolorosa sensazione. Perché – come diceva un vignaiolo a dei giovani frati tanto tempo fa in tempo di potature – “venite a vedere la vigna che piange!”, facendoci osservare che là dove la lama era passata c’era una goccia di linfa che avrebbe poi cicatrizzato la ferita. Eppure da questo sacrificio lacrimevole mesi dopo il tralcio avrebbe saputo dare i suoi frutti abbondanti.

L’ “in-tralcio” allora potrebbe essere non solo il tralcio che non desidera stare nella vigna/vite, ma pure quello che standoci rifiuta di essere potato: nell’uno e nell’altro caso, pensa di far da sé “perché chi fa da sé fa per tre!”. Il credente scopre che invece “in Tre” sono quel Dio che ha cura della sua vigna: ma com’è difficile lasciarsi fare… lasciarsi potare…

Francesco d’Assisi impiegò non pochi anni per capire questa dinamica del “lasciarsi-fare”, “lasciarsi-potare”: poi rimase un tema forte della sua esperienza spirituale, domandandosi più e più volte se ci fosse riuscito, se fosse stato di “intralcio” al progetto di Dio, se i frutti della sua sequela fossero quelli graditi-voluti da Dio, se le sue non poche lacrime fossero alimentate dall’orgoglio o dalla linfa evangelica che scorreva nelle sue vene spirituali.

Ne è conferma una certa attenzione di Francesco per queste parole di Gesù di Gv 15. Ad esempio nella lunga ammonizione della Regola non bollata tra i tanti detti di Gesù raccolti da Francesco in un’ipotetico sunto del Vangelo troviamo:

«E sempre costruiamo in noi un’abitazione e una dimora permanente a lui, che è il Signore Dio onnipotente, Padre e Figlio e Spirito Santo, che dice: «Vigilate dunque e pregate in ogni tempo, perché siate ritenuti degni di sfuggire a tutti i mali che stanno per venire e di stare davanti al Figlio dell’uomo. […] Se rimarrete in me e le mie parole rimarranno in voi, domanderete quel che vorrete e vi sarà fatto. Dovunque sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono lì in mezzo a loro. Ecco, io sono con voi sino alla fine del mondo. Le parole che vi ho dette sono spirito e vita. Io sono la via, la verità e la vita» (Regola non bollata, XXII : FF 61)

E pure nella seconda biografia del celanese, rammentando l’incontro di san Domenico e san Francesco con le autorità della Chiesa, torna la preoccupazione di Francesco perché la fraternità francescana resti saldamente nella vigna ma poi non sia di intralcio portando frutti indesiderati di orgoglio e aspri di superbia:

«Dopo questa breve e convinta risposta [di san Domenico, n.d.r.], Francesco si inchinò al vescovo e disse a sua volta: «Signore, i miei frati proprio per questo sono stati chiamati minori, perché non presumano di diventare maggiori. Il nome stesso insegna loro a rimanere in basso e a seguire le orme dell’umiltà di Cristo, per essere alla fine innalzati più degli altri al cospetto dei santi. Se volete – continuò – che portino frutto nella Chiesa di Dio, manteneteli e conservateli nello stato della loro vocazione, e riportateli in basso anche contro la loro volontà . Per questo, padre, ti prego: affinché non siano tanto più superbi quanto più poveri e non si mostrino arroganti verso gli altri, non permettere in nessun modo che ottengano cariche» (Tommaso da Celano, Vita seconda, 148 : FF 732).

Il tutto trasformandosi decenni dopo la morte del santo di Assisi in modo quasi sognante da fr. Angelo Clareno, che immagina un dialogo solenne tra Cristo e Francesco, carico di promesse ma pure di critiche indirette all’evoluzione della famiglia francescana:

«Io [Gesù, n.d.r.] chiesi al Padre mio che in quest’ultima ora mi desse un popolo poverello, umile, mite e mansueto, in tutto simile a me nella povertà e umiltà , contento solo di me; che io potessi dimorare e riposare in esso, come dimora e riposa in me il Padre mio, ed esso riposasse e rimanesse in me, come io rimango nel Padre e riposo nel suo Spirito. Il Padre mio mi ha dato te e quanti per mezzo tuo aderiranno a me con tutto il cuore, con fede non falsa e carità perfetta. Io li guiderò e li pascerò; saranno figli per me, e io sarò per loro un padre. Chi accoglierà voi, accoglierà me, chi perseguiterà voi, perseguiterà me. Il mio giudizio cadrà su quanti vi disprezzeranno e perseguiteranno; come la mia benedizione sarà su quanti vi accoglieranno e beneficeranno» (Angelo Clareno, Libro delle Tribolazioni, FF 2125).

Il frate Antonio di Padova divaga nella simbologia, introducendo poeticamente anche la Vergine Maria:

«La vite, così chiamata per la sua forza (lat. vitis, vis) di mettere presto radice o perché si allaccia alle altre viti, è la Vergine Maria che fin dall’inizio fu radicata più profondamente di tutti nell’amore di Dio, e fu allacciata inseparabilmente alla vera vite, cioè al suo Figlio, che disse: “Io sono la vera vite” (Gv 15,1); e nell’Ecclesiastico [Maria] aveva detto di sé: “Io come la vite ho prodotto un frutto di soave profumo” (Eccl. 24,23). Il parto della beata Vergine non ha esempio in alcun’altra donna, ma trova delle somiglianze in natura. Ti domandi in che modo la Vergine ha generato il Salvatore? Come il fiore della vite produce il profumo. Troverai incorrotto il fiore della vite, dopo che ha emanato il suo profumo; similmente devi credere inviolato il candore della Vergine, dopo che ha generato il Salvatore. Che cos’altro è il fiore della verginità se non la soavità del suo profumo? I tre tralci di questa vite furono: il saluto dell’angelo, l’intervento dello Spirito Santo, l’ineffabile concepimento del Figlio di Dio. Prodotta da questi tre tralci, la famiglia dei fedeli si allarga ogni giorno in tutto il mondo e si moltiplica per mezzo della fede. Le gemme della vite sono l’umiltà e la verginità di Maria; i fiori sono la fecondità senza corruzione e il parto senza dolore; i tre grappoli d’uva sono la povertà, la pazienza e la temperanza della beata Vergine. Queste sono le uve mature dalle quali sgorga il vino perfetto e aromatico che inebria, e inebriando rende sobria l’anima dei fedeli» (Sermoni. In lode della beata Vergine Maria).

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ARTICOLO DI: Andrea Vaona

“fr. Andrea Vaona - francescano conventuale, contento di essere frate. Nato sul limitare della laguna veneta, vive in città con il cuore in montagna, ma volentieri trascina il cuore a valle per il servizio ministeriale-pastorale in Basilica del Santo a Padova e con l'OFS regionale del Veneto. Scrive (poco) e legge (molto). Quasi nativo-digitale, ha uno spazio web: frateandrea.blogspot.com per condividere qualche bit e idea.”

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