Giovedì Santo. Triduo pasquale/1

Giovedì Santo. Triduo pasquale/1

Celebrare ogni anno la Pasqua del Signore, ricordare e rivivere i suoi gesti e le sue parole, è confessare la fede nella resurrezione di Cristo, è affermare di credere che la vicenda di quell’uomo, Gesù di Nazaret, come lui ha vissuto e come lui è morto ed è tornato alla vita, possiede ancora oggi un valore e un significato grandi per la vita degli uomini e per l’intera storia dell’umanità.
Questi tre giorni del Triduo Pasquale, vengono comunemente chiamati “santi” perché ci fanno rivivere l’evento centrale della nostra Redenzione,  fulcro dell’intero anno liturgico, ci riconducono infatti al nucleo essenziale della fede cristiana, per contemplare il mistero della Passione, Morte e Risurrezione del Signore Gesù Cristo.
La ragione per cui la chiesa celebra annualmente le liturgie del Triduo santo è quella di far conoscere e far penetrare nei cristiani e in ogni uomo tutta la storia della salvezza illuminata dal soffrire, dal morire e dal risorgere di Gesù, e dunque dall’intera sua vita donata per la salvezza del mondo.
Sono giorni che potremmo considerare come un unico giorno: essi costituiscono il cuore ed il fulcro dell’intero anno liturgico come pure della vita della Chiesa.
Al termine dell’itinerario quaresimale, ci apprestiamo anche noi ad entrare nel clima stesso che Gesù visse allora a Gerusalemme.
Giovedì Santo
Giovedì Santo, la Chiesa fa memoria dell’Ultima Cena durante la quale il Signore, la vigilia della sua passione e morte, ha istituito il Sacramento dell’Eucaristia.
In quella stessa notte Gesù ci ha lasciato il comandamento nuovo, il comandamento dell’amore fraterno.
Alla sera, nella Messa in Cena Domini si fa memoria dell’Ultima Cena quando Cristo si è dato a tutti noi come nutrimento di salvezza, come farmaco di immortalità: è il mistero dell’Eucaristia, fonte e culmine della vita cristiana.
Per far comprendere ai discepoli l’amore che lo anima, lava loro i piedi, offrendo ancora una volta l’esempio in prima persona di come loro stessi dovranno agire. L’Eucaristia è l’amore che si fa servizio. È la presenza sublime di Cristo che desidera sfamare ogni uomo, soprattutto i più deboli, per renderli capaci di un cammino di testimonianza tra le difficoltà del mondo.
Nel darsi a noi come cibo, Gesù attesta che dobbiamo imparare a spezzare con altri questo nutrimento perché diventi una vera comunione di vita con quanti sono nel bisogno. Lui si dona a noi e ci chiede di rimanere in Lui per fare altrettanto.
Con il rito della lavanda dei piedi, si ripete il gesto con cui Gesù, avendo amato i suoi, li amò sino alla fine (cf. Gv 13,1-25) e lasciò ai discepoli come loro distintivo questo atto di umiltà, l’amore sino alla morte.
Quale volto di Dio ci rivela Gesù con il suo gesto?
Solo due accentuazioni, tra le tante possibile.
1) «Depose le vesti»: Gesù decide di spogliarsi, di denudarsi, di togliersi cioè ogni maschera, ogni prerogativa divina: Lui – afferma San Paolo ai Filippesi – non ritenne un privilegio essere “come Dio”, ma spogliò se stesso divenendo simile agli uomini (Fil 2,6-7).
Gesù “depone le vesti” perché vuole eliminare ogni barriera, ogni corazza di difesa: scopriamo così un Dio che si spoglia, diventa fragile: solo in questo modo può davvero incontrare la nostra fragilità… altrimenti ci schiaccia con la sua “divinità”.
Come succede tra di noi: incontriamo veramente l’altro solo quando ci denudiamo e condividiamo la nostra fragilità.
Solo l’incontro tra fragilità è salutare e porta riconciliazione, pace, desiderio di crescere e camminare insieme…
Se mi relaziono all’altro a partire dalla “mia” forza, reale o presunta, lo schiaccio e non lo incontro nella sua intimità intrisa di debolezza e fragilità, come del resto è la mia se mi conosco e accetto realmente!
2) «Cominciò a lavare i piedi ai discepoli»: Gesù “sa che è giunta l’ora di passare da questo mondo al Padre”, eppure non si lamenta, non condanna gli altri, non rivendica diritti; per Lui anche questo momento così difficile è occasione per amare, e per amare tutti, senza preferenze:
– ama Giuda, che ha già il diavolo del tradimento in corpo,
– ama Pietro che non comprende niente e fa lo scandalizzato e poi lo rinnegherà,
– ama gli altri discepoli che avevano litigato per stabilire chi è più grande tra loro…
Insomma, Gesù ama questi “amici suoi” anche se sa che tra poco tutti lo abbandoneranno fuggendo!
È proprio questo amore senza preferenze e “senza limiti” che crea scandalo anche in noi cristiani:
– ci è più semplice pensare a un Dio che “sceglie” i buoni, e io sono tra quelli, ovviamente,  e “scarica” i cattivi;
– ci scandalizza un Dio che “non fa preferenze” e annulla tutte le differenze, abbattendo tutte le barriere del “mi piaci / non mi piaci” – “mi sei simpatico / mi sei antipatico” – “mi sei amico / mi sei nemico” – “mi hai fatto del bene / mi hai fatto del male”…
Gesù, dunque, con questi semplici gesti ci rivela un Dio che si spoglia per incontraci nella fragilità, senza vergognarsi di noi e senza farci vergognare di noi stessi; e ci fa conoscere un Dio che ama chiunque, senza fare preferenze e senza chiedergli prima cosa ha fatto per meritarsi amore, fiducia, perdono!
Se “comprendiamo”, se cioè ci lasciamo amare e amiamo intensamente “questo” Dio, allora saremo testimoni suoi: il gesto di lavare i piedi, ogni gesto di carità, non sarà solo segno della nostra bontà e del nostro amore quanto piuttosto rivelazione e annuncio del Dio in cui crediamo … anche se gli altri, non ci crederanno.
Gesù, infatti, ha amato “fino alla fine” ed ha amato “in perdita”!
Nel comandamento dell’amore, che Gesù esprime nella lavanda dei piedi, san Francesco coglie il significato di questo gesto, ripetendolo al servizio dei lebbrosi:
«Poi, amante di ogni forma d’umiltà, si trasferì presso i lebbrosi, restando con loro e servendo a loro tutti con somma cura. Lavava loro i piedi, fasciava le piaghe, toglieva dalle piaghe la marcia e le ripuliva dalla purulenza. Baciava anche, spinto da ammirevole devozione, le loro piaghe incancrenite, lui che sarebbe ben presto diventato il buon samaritano del Vangelo» (LegM 2,6: FF 1045).
Il Poverello porta nel cuore le parole e i gesti del giovedì santo, al punto che poco prima di morire, «si fece recare dei pani e li benedisse. Siccome a causa della sua infermità non aveva la forza di spezzarli, li fece spezzare da un frate in molte particelle, e ne diede una particella a ciascuno, raccomandando che venisse consumato interamente. Come il Signore il giovedì santo volle cenare con gli apostoli prima della sua passione, così parve a quei frati che anche il beato Francesco, prima di morire abbia voluto benedire loro e in loro benedire tutti gli altri, e mangiare quel pane benedetto quasi in compagnia di tutti gli assenti» (CAss 22: FF 1567).
Dopo la Messa in Cena Domini, la liturgia invita i fedeli a sostare in adorazione del Santissimo Sacramento, rivivendo l’agonia di Gesù nel Getsemani.
E vediamo come i discepoli hanno dormito, lasciando solo il Signore.
Anche oggi spesso dormiamo, noi suoi discepoli.
In questa notte sacra del Getzemani vogliamo essere vigilanti, non vogliamo lasciar solo il Signore in questa ora; così possiamo meglio comprendere il mistero del Giovedì Santo, che ingloba il triplice sommo dono: del Sacerdozio ministeriale, dell’Eucaristia e del Comandamento nuovo dell’amore.

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ARTICOLO DI: Alberto Origgi

“Fra Alberto Origgi – frate minore conventuale. Da grafico pubblicitario, ad agricoltore, a frate francescano poi, per trafficare nella vigna del Signore ed essere a servizio del Regno di Dio. È passato attraverso esperienze parrocchiali, caritativo-sociali con persone con handicap, condivisione di esercizi spirituali, ad esperienze in chiese conventuali. Laudato sii, mi Signore, per quelle parole di San Francesco che sento profondamente mie e che mi lacerano e feriscono il cuore: “Iniziamo fratelli a servire e a fare il bene perché finora abbiamo fatto poco o nulla!”.”

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