sberleffi illustri
In questi giorni la notizia della rilevazione scientifica delle “onde gravitazionali” ha destato l’attenzione dell’opinione pubblica, anche la meno allenata a questioni così complesse.
Al di là dell’oggettiva straordinarietà della scoperta, molto si è insistito – e non a caso – sul fatto che questa registrazione delle onde gravitazionali attraverso strumenti enormi e sofisticati abbia di fatto dato certezza a quanto fosse stato teorizzato da Albert Einstein quasi un secolo fa. La conferma “empirica” di una “visione” che il fisico e matematico aveva saputo prevedere e descrivere con il solo strumento dell’intelligenza, della logica, con caratteri matematici… su lavagne e fogli di carta! Non si può non parlare di uno sguardo “mistico” sulla realtà, un vedere “oltre” ciò che i cinque sensi possono offrire e garantire.
Gli articoli – numerosissimi – che hanno presentato la notizia spesso sono stati corredati dalla celeberrima foto “pop” che ritrae l’irriverente sberleffo di Einstein davanti l’obiettivo della macchina fotografica di Arthur Sasse nel 1951. Un accostamento forse ardito, quasi a evocare un “ve lo avevo detto, io!” rivolto a quanti fossero rimasti perplessi al cospetto della teoria e della sua “visione”.
Oggi in Basilica del Santo a Padova si fa memoria di un altro celebre “sberleffo” che da otto secoli circa sollecita la curiosità di molti e la devozione di tanti. E’ addirittura una festa liturgica, la festa della Traslazione delle Reliquie, meglio conosciuta come “Festa della Lingua“.
«Questo nome lo si deve a un avvenimento accaduto nel 1263, a trentadue anni dalla morte di sant’Antonio, quando i frati decisero di trasferire i suoi resti mortali nella nuova basilica costruita accanto alla chiesetta in cui era stato inizialmente sepolto. Nell’aprire la cassa di ruvido legno che conteneva le spoglie, il ministro generale dei francescani, Bonaventura da Bagnoregio (dichiarato poi santo da papa Sisto IV), si accorse con stupore che la lingua di Antonio era ancora intatta, senza i segni di decomposizione che avevano consumato il resto del corpo. Mostrando la preziosa reliquia ai fedeli, san Bonaventura esclamò:
«O lingua benedetta, che hai sempre benedetto il Signore e lo hai fatto benedire dagli altri, ora appare a tutti quanto grande è stato il tuo valore presso Dio».
Da allora le ossa del Santo sono custodite in un’urna di marmo, posta inizialmente nel mezzo della basilica sotto la cupola centrale, e dal 1350 nella cappella dell’Arca collocata sul lato sinistro della chiesa. La lingua incorrotta fu posta invece in un prezioso reliquiario ed è ancora visibile, insieme alla reliquia del mento, nella cappella circolare dietro l’abside» (cfr. sito cantualeantonianum).
Frate Antonio di Padova (da Lisbona!) fu uno dei primi frati minori, coevo a san Francesco d’Assisi. E’ uno dei primissimi santi della famiglia francescana. «Egli, dotato di un’ottima formazione e adorno della ricchezza delle virtù, fu considerato “arca del Nuovo Testamento e scrigno delle Sacre Scritture”, riuscendo, nella sua epoca, ad essere un efficace araldo e propagatore del Vangelo (cit.)».
Con una vita intensa ed evangelica alla continua ricerca della volontà di Dio sulla sua esistenza, Antonio ha saputo usare gli strumenti del cuore e dell’intelletto per conoscere il mistero di Dio, descriverlo nel modo “scientifico” per il suo tempo (componendo i “Sermoni”) ma sapendolo anche annunciare e narrare in modo semplice e vigoroso con la parola e la predicazione popolare: oggi figurerebbe di certo tra gli “autori” di questo blog #bibbiafrancescana.
Racconta l’agiografo:
«L’uomo di Dio mentre parlava, da tutti era ascoltato con tale attenzione che, sebbene fossero adunate in assemblea trentamila e più persone, si udiva difficilmente un mormorio o qualche strepito.
Anche i negozianti, chiuse le loro botteghe, non osavano vendere niente, finché, terminato il sermone, ognuno tornava alle proprie occupazioni.
Dopo la predica, tutta quella folla cercava, nell’incontenibile slancio devoto, almeno di toccarlo, tanto che egli, nel tragitto di andata e in quello di ritorno, temeva sovente di restare schiacciato, se una robusta schiera di giovani non l’avesse scortato.
Lì avresti veduto inimicizie mortali rappaciarsi, rimesse in libertà persone detenute da lungo tempo, restituite ruberie e usure, ridati i pegni e condonati i debiti. Ciascuno chiedeva consiglio secondo il genere dei propri peccati e s’impegnava ad attenersi lealmente all’arbitrato dell’uomo di Dio […]. Talmente numerosi erano i colpevoli di vari peccati che ricorrevano alla penitenza, che i sacerdoti non erano bastanti ad ascoltare le confessioni.
Così dunque il servo di Dio, Antonio, benché gravato da continua malattia, non si lasciava sopraffare dai gravami del lavoro, e continuava a predicare, ascoltare confessioni e dare consigli. In tal modo, spargendo le sementi salutari della vita, egli percorse la distesa dei quaranta giorni, raccogliendo per il Signore un’abbondante mèsse di credenti» (GIULIANO DA SPIRA, “Vita secunda” di s. Antonio di Padova, [6,5; 7,1-11; 8,1-2; 9,1-2])
Per quanto strana e macabra alla nostra sensibilità di uomini del terzo millennio, la scoperta e la persistenza della lingua incorrotta di sant’Antonio diventa anche un curioso “sberleffo” sovrannaturale che il santo francescano ci consegna: la sua lingua a servizio per circa 35 anni di quella Parola «…non seme corruttibile, ma incorruttibile, cioè la Parola di Dio viva ed eterna» (1Pt 1,23) ha sfidato l’usura del tempo.
Albert e Antonio: due cercatori di verità. Due “mistici” che hanno saputo vedere “oltre”.
Due “sberleffi” affettuosi per dirci: “Te lo avevo detto…”.
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