A come… abito!

A come… abito!

Si cominciò nudi, come mamma ci ha fatti. Senza vergogna, né della propria fragilità né della propria corporeità (Gen 2,25). Ci si sapeva felicemente creature, deboli, ma nelle mani di Dio. Poi non tutto filò liscio, abbiamo improvvisamente bisogno di qualche foglia di fico dietro cui nasconderci (Gen 3,10). E sarà ancora Dio, provetto sarto, a prenderci le misure, a confezionarci tuniche di pelle per partire fiduciosamente lungo le strade del mondo (Gen 3,21). E l’abito comincerà a “fare il monaco”, a trasformarsi in divisa: quello del sacerdote, complesso e simbolico (Es 39), il mantello di pelo che identifica il profeta (2Re 2,13) o quello di porpora dei re (1Re 22,10; Mt 27,28), l’abito bello della festa (Lc 15,22), il perizoma del re Davide, quasi un tanga liturgico per danzare liberamente davanti all’Arca (2Sam 6,20-22), il vestito da sposa (Gdt 10,3), quello di sacco dei penitenti (Sal 30,12) e, infine, quello molto casual di Giovanni Battista (Mt 3,4). Si può persino vestirsi di giustizia «come un abito» (Gb 29,14), e così vestire gli ignudi diventa un obbligo morale, perché Dio «rende giustizia all’orfano e alla vedova, ama il forestiero e gli dà pane e vestito» (Dt 10,18). Da qui l’obbligo a non trattenere presso di sé il mantello avuto in pegno: «dovrai assolutamente restituirgli il pegno al tramonto del sole, perché egli possa dormire con il suo mantello e benedirti» (Dt 24,13). Finché il Figlio di Dio, vestita la nostra umanità, tornerà alla nudità iniziale, sulla croce (Mt 27,35; Sal 22,19). E a noi resteranno in guardaroba solo bianche tuniche lavate nel sangue dall’Agnello (Ap 7,14).
Chiara e Francesco iniziano entrambi con ricche vesti (LegsC 2: FF 3159; 3Comp 2: FF 1396). Poi anche Francesco passerà dalla nudità davanti al vescovo, per andarsene poi per il mondo vestito di sacco e cinto di corda, con abito a forma di croce (1Cel 21: FF 356). Come i contadini e i poveri del suo tempo. Un abito da arlecchino (Rnb 2,14: FF 8). Così Chiara. Un abito che nascondesse più che rivelasse (LegsC 4: FF 3170). Un abito infine assunto a divisa: il saio, cappuccio dotato, dei frati (Rb 2,14: FF 81), e quello, velo dotato, delle suore clarisse e francescane (RsC 2,12.15: FF 2759.2761). Un abito che può essere evangelicamente donato a chi non ne ha (Mt 25,36), senza permettersi di criticare chi invece indossa vesti sontuose (Rb 2,17: FF 81). Come faceva frate Ginepro, che spesso e volentieri tornava al convento in mutande, ogni volta avendo regalato ai poveri il suo saio. Alle rimostranze del suo guardiano, che gli proibì di farlo ancora, così risolse il dilemma tra carità e obbedienza, di fronte all’ennesimo povero: «Carissimo, per obbedienza non posso darti la mia veste; ma se tu vuoi, puoi prendertela» (Chronica XXIV Generalium, p. 58).
Francesco e Chiara convinti che non si tratti nemmeno di stracciarsi le vesti per chicchessia motivo (Mt 26,65; Gen 44,13; Gl 2,13), ma di deporle. Per inginocchiarsi a lavare i piedi dei fratelli e delle sorelle (Gv 13,4; Legm 1,8: FF 1337; Proc 1: FF 2936)…
(Alfabeti improbabili. A zonzo tra Bibbia e Fonti Francescane/23)

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ARTICOLO DI: Fabio Scarsato

“Fra Fabio Scarsato – Originario di Brescia, frate minore conventuale, è appassionato di san Francesco e francescanesimo, che declina come stile di vita personale e come testimonianza agli altri. È passato attraverso esperienze caritativo-sociali con minori e giovani in difficoltà, esperienze parrocchiali e santuariali nella trentina Val di Non (Sanzeno e S. Romedio), di insegnamento della spiritualità francescana, condivisione di esercizi spirituali e ritiri, grest e campiscuola anche intereligiosi, esperienze di eremo e silenzio. Attualmente vive al Villaggio S. Antonio di Noventa Padovana, ed è direttore editoriale del Messaggero di S. Antonio, del Messaggero dei ragazzi e delle Edizioni Messaggero Padova.”

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