L’invidia. Ovvero la malattia del nostro sguardo

L’invidia. Ovvero la malattia del nostro sguardo

Invidia etimologicamente viene dalla radice latina in-video che indica il guardare con sguardo bieco. Spesso è confusa con l’avidità o con la gelosia. L’invidia si caratterizza come un desiderio ambivalente: possedere ciò che gli altri possiedono o che gli altri perdano quello che possiedono. In realtà l’invidia non riguarda i beni: l’enfasi è sul confronto della propria situazione con quella delle persone invidiate e non sul valore intrinseco dell’oggetto posseduto da tali persone.

Alla base dell’invidia c’è, generalmente, la disistima e l’incapacità di vedere le cose e gli altri prescindendo da se stessi: l’invidioso è costretto a misurare tutto a sé. Si può quindi affermare che l’invidioso è generalmente frustrato, egocentrico, capace di rapportarsi agli altri esclusivamente in modo competitivo. Tra gli atteggiamenti tipici dell’invidioso primeggia il disprezzo di ciò o di chi si invidia. L’invidia provoca uno stato di profonda prostrazione: con il suo comportamento l’invidioso grida al mondo: «io sto male per colpa tua, perché tu metti in luce la mia inferiorità! Devo assolutamente evidenziare le tue mancanze, i tuoi difetti, facendoti sentire ridicolo: farò in modo che anche tu soffra come me!». Quasi nessuno ammette di essere invidioso e pochissime persone ne parlano apertamente, perché svelare questo sentimento è come rivelare al mondo la parte più meschina e vulnerabile di sé stessi.

È importante sottolineare che l’invidia ha a che fare con lo sguardo: la finestra che congiunge il nostro “mondo di dentro” con il “mondo di fuori”, la “via della bellezza”. L’invidia è intimamente legata al modo di conoscere e desiderare la bellezza, la bontà e il buono. L’invidioso percepisce il bello non come una cosa apprezzabile ma come negazione della propria bellezza-bontà. Qui c’è tutto il dramma dell’invidioso: non può godere della bellezza! Emerge una dinamica molto profonda e complessa, di cui una radice profonda è nella valutazione che si ha di sé: l’invidioso pensa che c’è qualcosa in lui che non sia bello-buono perché Dio si è sbagliato con lui. L’invidioso in fondo ha nel cuore una bestemmia: «Dio, il Creatore, ha fatto bene tutto… tranne me!». Questo si traduce nel percepire la bontà-bellezza altrui come una minaccia per sé: l’altro e, in ultima analisi, l’Altro, nel suo esistere è una minaccia, perché svela il non essere come si vorrebbe. Nell’esistenza dell’altro l’invidioso avverte una paura e un malessere che lo “obbligano” a sminuirla. In questa prospettiva si rivela la dimensione più pericolosa dell’invidia: non è possibile accogliere l’altro/Altro ma bisogna eliminarlo come un fastidioso ostacolo perché chiama l’invidioso a non essere al centro e al primo posto. L’altro/Altro, con la sola presenza, ci provoca e ci chiama alla relazione. L’invidia, invece, ci impone di non amare. Ecco la radice della sofferenza dell’invidioso: chi ama svela all’altro la sua bellezza (come ricorda J. Vanier), collabora alla sua felicità, mostra la sua bontà, e soprattutto si dimentica di sé per ricordare l’oggetto del suo amore, l’invidioso questo non lo può fare! Per sopravvivere a se stesso chi è malato d’invidia deve negare tutto ciò che pensa che lo superi, ma così facendo si autocondanna all’isolamento e alla solitudine.

L’invidia è una malattia dello sguardo: lo sguardo patologico fa apparire piacevole e desiderabile il male e fa rifiutare il bene. È la malattia di Adamo che non accetta il limite creaturale e mangia dall’albero; di Caino che rifiuta Abele; di Saul che rifiuta Davide. È la malattia del narcisista, di chi pensa di essere al centro del mondo, e che tutti sono lì per servirlo. L’invidia è una forma di cecità: non vede che il bello è creato da un Creatore per la gioia delle creature.

Scheda:

Dalle Scritture: Sir 14,8-10; Lv 19,14-18 Qo 4,4; Pr 23,17s; Sap 2,24; Mt 20,15; 1Tm 6,4; Gal 5,26; 1Sam 18,6-16; Mc 10,35-45; Lc 15,28; 1Cor 3,2-23; 1Gv 3,12; Sap 6,23; Mc 7,22; 1Cor 13,4; Ez 31,9; Gc 4,2; Sal 37,1; 73,3; Pr 3,31; 14,30; 24,1; Sir 9,11

Dalle Fonti Francescane: FF 155; FF 157; FF 167-168; FF 178.

Dalla letteratura: Esopo, La volpe e l’uva; F. M. Dostoevsky, Il principe; J. Venier, Abbracciamo la nostra umanità

Canzoni: De André, Il giudice; De André, Boccadirosa; Caparezza, Io diventerò qualcuno; Gaber, L’odore

(I vizi capitali/2)

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ARTICOLO DI: Paolo Benanti

“Fra Paolo Benanti francescano del Terzo Ordine Regolare ha acquisito la sua formazione etico-teologica presso la Pontificia Università Gregoriana e ha perfezionato il suo curriculum presso la Georgetown University a Washington D.C. (USA) dove ha potuto perfezionare le ricerche sul mondo delle biotecnologie. Svolge la sua attività accademica come docente di Teologia morale (fondamentale, sessuale e morale della vita fisica) e Bioetica tra la Gregoriana a Roma, l’Istituto Teologico ad Assisi e il Pontificio Collegio Leoniano di Anagni. Collabora con l’American Journal of Bioethics - Neuroscience ed è membro dello staff editoriale di Synesis. È autore di numerose pubblicazioni presso editori italiani e internazionali.”

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